A che gioco stiamo giocando?
Sulla scrittura, l'attivismo performativo e le cose a cui crediamo di credere.
Questo mese ho avuto modo di fare molte cose, primo fra tutti arrabbiarmi che è diventato un po’ la mia specialità. Mi sono sentita piccola, soffocata dalle idee altrui, sconfitta nella possibilità di esprimere le mie. Perduti, antichi eroi, ti ricordi? Sono rimasta un po’ ferma lì. Perché davvero mi sembra sempre più necessario e sempre più faticoso lottare contro gli spietati.
Ci ho ripensato leggendo per lavoro un libro di Will Storr, un giornalista britannico che ha ideato la teoria del gioco dello status. Nel suo ultimo saggio (trovi il titolo nella lista dei libri letti questo mese) spiega come tutta l’esistenza umana possa essere ricondotta a un gioco (o più di uno). Il premio in palio? Lo status. Vince il gioco chi è più forte, in alcuni casi, in altri chi è più competente o chi è semplicemente più bravo. Il problema è che negli anni la concezione di bravura è cambiata drasticamente, e Storr descrive in modo dettagliato questa evoluzione.
Nelle tribù preistoriche di cacciatori e raccoglitori il prestigio (lo status) apparteneva alla persona in grado di reperire più risorse per la sopravvivenza della comunità. Oggi il gioco è molto diverso. Vince chi indossa un Rolex invece di un Casio, ma pure chi ti fa credere di avere ragione solo perché urla più forte di te. Vince chi supporta il partito che effettivamente vince le elezioni, oppure chi supporta il partito opposto, perché può dimostrarti a colpi di saggi, post sui social e infografiche che avrebbe dovuto vincere. In fondo il premio non è essere la persona migliore, è sentirsi la persona migliore.
E io quando mi sento migliore? Quando ottengo la vittoria o quando posso lamentarmi dell’ingiustizia di non averla ottenuta? Quando un mio post sui social fa cambiare idea a qualcuno, o quando fa arrabbiare un sacco di persone che non cambieranno mai idea (ma mi faranno avere un sacco di visualizzazioni)? Quando il mio sano desiderio di diffondere idee in cui credo diventa attivismo digital-performativo? Quando finisce il desiderio di cambiare il mondo e inizia quello di sentirmi dire quanto sono brava nei miei tentativi? La questione si fa complicata, ancor di più in questo lavoro che è tante cose, ma soprattutto scrivere.
Io sono una copywriter E scrittrice. Scrivo i testi dei siti web dei miei clienti, e in quel caso è tutto semplice. Il cliente è un’agenzia che organizza viaggi, scrivo il testo in modo che i viaggiatori abbiano una guida chiara e informativa. Rispetto il tono di voce del cliente, le linee guida di Google e le mie conoscenze di scrittura persuasiva. Tutto chiaro. Ma quando scrivo sui miei social, quando pubblico sul mio blog e qui sulla mia newsletter, quando lavoro al fianco di associazioni delle quali condivido i valori, la storia cambia. Non sono un’operaia che finisce il turno e bon, su Instagram può pubblicare quello che vuole. Il mio lavoro e la mia identità digitale non possono divergere più di tanto. Non è normale che lo facciano. E questo mi fa perdere clienti, e soldi, e anche amicizie e legami con le persone a cui voglio bene. Succede a tutti e tutte coloro che fanno comunicazione e divulgazione sul web.
Se n’è parlato nel corso delle disastrose elezioni in USA e se ne parla sempre quando arriva il 25 novembre con il suo carico di frasi fatte e di giustissimo sdegno. C’è chi scrive, chi non scrive, chi dice che ognuno dovrebbe pensare alle questioni sue e che tutte le idee che lanciamo sulle piattaforme social non sono altro che performance epr un pubblico che applaude o lancia pomodori. Ma queste sono anche questioni mie. Se il Governo non ha inserito le mie patologie nei nuovi LEA, neanche quest’anno, è una questione mia. Se uomini che conosco e quelli che non conosco ma che potrei incontrare alla fermata dell’autobus twittano “Il tuo corpo, la mia scelta”, è una questione mia.
Con tante riflessioni, un sacco di autocritica e una marea di passi falsi, sono arrivata a capire che vincere il gioco forse non è importante. Lo so che non otterrò granché da questi contenuti, né la fama né i soldi né tantomeno lo status. Quel che conta, per me, è giocare con la squadra giusta. Il che significa schierarmi, su tutti quegli argomenti che non si possono scindere dalla mia identità, personale e digitale. Sarà un po’ la sindrome dell’eroina, ammetto di esserne affetta.
“C’è questa presunzione, in chi si sente destinato alle arti e soprattutto alla letteratura: si lavora come se si fosse ricevuta un’investitura, ma in effetti nessuno ci ha mai investiti di alcunché, abbiamo dato noi stessi a noi stessi l’autorizzazione a essere autori e tuttavia ci rammarichiamo se gli altri ci dicono: questa cosetta che hai fatto non mi interessa, anzi mi dà noia, chi ti ha dato il diritto”.
[E. Ferrante - Storia della bambina perduta]
È tutto qui, in queste poche righe quasi alla fine della tetralogia L’amica geniale. Tetralogia che, se mi segui sui social, sai bene che ha travolto molto del mio essere donna, del mio essere scrittrice, del mio essere persona. In queste righe Lenù (sì, io sono Lenù, mi sarebbe piaciuto forse essere un po’ più Lila ma sono Lenù) ha scritto il senso di quello che facciamo, anche adesso che sui social ci sentiamo tutti autori e autrici di verità assolute. L’investitura siamo noi stessi a darcela. Si tratta di un gioco, ma un gioco, come dice Will Storr, in cui crediamo ciecamente.
Quindi sì, forse qualcuno mi dirà che questa o quella cosetta che ho fatto non gli interessa, anzi gli dà noia, chi mi ha dato il diritto. Ma cosa pensi che possa fare una minaccia di querela o un messaggio spiacevole, a una che ha la sindrome dell’eroina? Suvvia. Io continuo a scrivere, a dire, a condividere, a giocare e sì, a sentire che sto giocando nel modo giusto. Finché rispetto le regole della mia stessa integrità, continuo. Sbaglio, torno indietro, chiedo scusa se mi sono spiegata male, torno a spiegarmi, torno a sbagliare. Forse fra qualche decennio rileggerò questa newsletter e sentirò (ancora dalle parole di Lenù) “difetti, eccessi, toni troppo esclamativi, la vecchiaia di ideologie che avevo sostenuto come indiscutibili verità”. Allora scriverò ancora, scriverò che mi sono sbagliata.
Questo mese sul blog ho scritto:
“Voglio vivere la mia vita” di Carmen de Burgos e una nuova collana sulle scrittrici femministe
Diario della gratitudine, a cosa serve quando soffri di una malattia cronica?
Federa di seta per capelli ricci e non solo - il regalo di Natale perfetto
Per il blog di WomenX Impact, ho inaugurato la rubrica “Non più invisibili” con questo articolo su occupazione femminile e malattie croniche:
Questo mese ho letto:
The status game. On human life and how to play it, di Will Storr ⭐️⭐️⭐️⭐️
Storia della bambina perduta, di Elena Ferrante ⭐️⭐️⭐️⭐️⭐️
L’età fragile, di Donatella di Pietrantonio ⭐️⭐️⭐️⭐️⭐️
Jane Eyre, di Charlotte Brontë ⭐️⭐️⭐️⭐️
Questo mese ho visto:
Gilmore Girls di Amy Sherman-Palladino, che rimane una delle migliori serie tv soprattutto quando hai l’influenza.
Il Re Leone 3 che forse non sarà invecchiato benissimissimo, ma ha un posto speciale nel mio cuore di ragazzina della scuola media.
La ballata dell’usignolo e del serpente, che all’inizio non mi è piaciuto ma poi mi ha fatto pensare che sarebbe ora di rileggere tutto Hunger Games.